WordPress mi ricorda che, evviva evviva, questo blog esiste da dieci anni! Dieci anni in cui sono successe un sacco di cose, ludiche e non, soprattutto non. Dieci anni in cui ho postato, ho sospeso, ho ripreso a postare, il tutto in puro stile Pennymaster, cioè discontinuo, caotico, singhiozzante. E va be’. Siamo ancora qui.
Il vecchio sito della Gilda
Nel frattempo sono arrivati due figli, traslochi, mutui, cambi di rotta sul lavoro, crisi economiche, riprese economiche, scuola, magagne famigliari, genitori malati e/o morti, depressioni, recuperi dalla depressione (parziali), qualche capello bianco in più, poi la pandemia, il lockdown, e adesso la maledetta d.a.d.. Insomma, tutto normale. Tutta vita.
Attualmente, posto poco. Gioco online (che faticaccia). Scrivo come un pazzo regolamenti e ambientazioni che nessuno giocherà mai. Ritardo nel perfezionare e completare i regolamenti e le ambientazioni che i miei giocatori invece vogliono giocare, perché l’autosabotaggio e la procrastinazione sono parte di me e non sia mai che rispetti una scadenza che sia una. Eccheccazzo, ho una reputazione da difendere.
Se ripenso a quando ho iniziato il blog, ho le vertigini. Sembra di parlare di un’altra persona, di un altro secolo.
E’ rimasta la voglia di giocare, di sperimentare, di trovarsi e far finta di…
Per cui, fedele al motto per cui non si smette di giocare quando si diventa vecchi, ma si diventa vecchi quando si smette di giocare, ribadisco il mio mantra: “Keep gaming!”
Sono un amante della vecchia scuola, per il semplice motivo che per me non è vecchia. E’ la mia scuola. C’è il modo in cui ho iniziato e ci sono i modi nuovi: ecco, la cosiddetta vecchia scuola è il modo in cui ho iniziato.
I PG muoiono come mosche, i background non si inventano fino a quando non ti sei affezionato abbastanza al personaggio, lo scopo è di ammassare tesori e non di salvare il mondo, i dungeon esistono e di solito c’è dentro un drago. Che devi ammazzare.
Insomma, è un po’ una semplificazione, ma ci siamo capiti. Quando cominci con la scatola rossa non hai troppe speranze di liberarti di un certo modo di vedere il GDR. Certo, poi si aggiungono nuovi giochi, si cambia mentalità, si provano cose nuove. Però la nostalgia, si sa, è canaglia e quando scoppia la moda dell’OSR tu ti guardi allo specchio e dici: “Evvai, sono tornato mainstream! Godiamocela finché dura”.
Five Torches Deep è scritto da Ben Dutter e Jessica Dutter ed è edito da Sigil Stone Publishing. Su DriveThruRPG è possibile acquistarlo in formato cartaceo + pdf a 20,00 $ più qualcosa per le spese di spedizione, oppure solo pdf a 10 $. Consiglio la carta, se non altro perché la stampa in casa finirebbe per uccidervi le cartucce, dato che è pieno di illustrazioni a colori. Non è una stampa di qualità eccelsa, è pari a una stampa casalinga su una laser a colori, eccetto che per la copertina, che fa una bella figura.
Accidenti, uno si prende quei dieci anni di tempo per decidersi a giocare a un gioco che lo intimidisce, e dopo la seconda sessione ZAC!: la pandemia riprende vigore. Tutti a casa a giocare in remoto, perché ormai che vuoi fare? Lasciare un’avventura a metà? E quindi ci si deve organizzare, ingegnare, adeguare.
Diciamolo subito: il gioco di ruolo in remoto non mi piace molto, ma non giocare è peggio, quindi è una scelta obbligata. Si tratta di fare di necessità virtù, cercando di minimizzare gli svantaggi e massimizzare i vantaggi. Quali sono gli svantaggi? L’elenco è molto soggettivo, per alcuni addirittura non ce ne sono, per altri il gioco di ruolo online è una sorta di snaturamento del concetto stesso di GDR. Io mi colloco da qualche parte nell’ampia zona grigia che divide questi estremi.
Cose che non mi piacciono
dover combattere con la connessione e con il software di appoggio, che può essere skype o meet o zoom o discord o roll20 o uno dei diecimila che sono apparsi alla ribalta durante il primo lockdown. C’è sempre uno che ha il microfono che non funziona, c’è sempre quello con la connessione lenta, c’è sempre la disconnessione selvaggia dietro l’angolo. E allora diventiamo tutti tecnici dell’assistenza da remoto: “Prova a verificare la connessione” “Vai nelle impostazioni” “Dove le trovo?” “In alto a destra!” “Qui dice Preferenze” “No più in basso” “scheda personaggio” “No più in alto” e via sproloquiando per ore. Ho guadagnato una forma di rispetto tutta nuova per i call center di assistenza, quei poveracci ne devono vedere di tutti i colori.
la difficoltà nell’interpretare gli umori del gruppo. C’è qualcosa nel trovarsi faccia a faccia intorno a un tavolo che surclassa l’interazione via internet. Ciò è particolarmente vero per il master, che ha il difficile compito di far fluire il gioco in maniera più disinvolta possibile. Le piccole sfumature nelle espressioni dei partecipanti vanno perse. L’intonazione con cui sono dette alcune cose vanno perse. Gli sguardi tra i giocatori vanno persi. Anche una cosa banale come un lag di pochi centesimi di secondo può far la differenza tra un serrato botta-e-risposta e un imbarazzante guazzabuglio in cui tre persone parlano in contemporanea, poi si fermano e cominciano il balletto “prima tu, no prima tu” che al confronto le tenere schermaglie tra adolescenti innamorati gli fanno un baffo. Va detto che alcuni programmi prevedono una funzione che consente ai giocatori e al master di creare canali di comunicazione preferenziali, ma non è la stessa cosa. Come master mi sono sempre ritenuto sensibile alle sottigliezze dell’interazione dal vivo, e spesso le ho sfruttate per cucire esperienze di gioco che i miei giocatori hanno apprezzato. Ma online mi crolla tutto come un castello di carte. E’ tutto più rigido, più ingessato, meno fluido. E’ impossibile uniformare il volume dell’audio dei partecipanti, per cui alcuni “gridano” e altri “sussurrano”. Le espressioni facciali di chi ha una buona camera sono chiare, gli altri sono macchie indistinte. Potrei continuare per ore, ma credo che il concetto sia chiaro.
dover contenere il mio istrionismo. Questa è molto personale, ma entra nell’elenco perché mi condiziona molto. A me piace abbandonare ogni riserva, descrivere le scene modulando la voce, alcune volte usando onomatopee e imitando accenti e rumori improvvisi, gesticolare senza ritegno e imitare i png. Quando gioco a casa devo fare i conti con i limiti imposti dalla presenza di due bambini con il sonno leggero e l’addormentamento difficoltoso, nonché con i vicini, che non sono rompiballe, ma hanno anche loro il diritto di non sentire me che faccio la voce del ghoul a mezzanotte.
Cose che mi piacciono:
Noi usiamo Roll20 e devo dire che è uno strumento davvero ottimo. A seconda dei giochi può essere più o meno utile, ma ha alcune caratteristiche che apprezzo molto.
La videochat interna. Funziona bene ed è personalizzabile in molti modi. Le icone sono abbastanza grandi da dare l’illusione di un un gruppo di persone, ma non abbastanza da risultare ingombranti.
Il tira dadi interno. Il funzionamento dipende molto dalla scheda del personaggio che si usa: alcune schede sono progettate molto bene e rendono il gioco molto spedito, perché calcolano tutto con la pressione di un pulsante. Nella chat appaiono i risultati ed è tutto. Dopo pochi minuti di adattamento è un’esperienza leggera e immersiva, molto di più che arrancare tra tiri multipli di dadi, che rotolano giù dal tavolo, finiscono nei sacchetti degli altri giocatori e fanno in generale molto disordine. In alternativa c’è un tira dadi che simula i dadi fisici, per chi vuole vedere rotolare qualcosa a tutti i costi.
Gli effetti sonori e la musica di sottofondo. Personalizzabili, discreti o invadenti quando serve, gli effetti sonori sono stati proprio utili per cercare di compensare quel che si è perso a causa della mancanza delle persone dal vivo. Inoltre si possono inserire tutti gli effetti personali e gli accompagnamenti musicali che si vuole, la cui gestione è piuttosto semplice e che aggiungono davvero tanto alla sessione di gioco.
Ecco, per ora è tutto qui. Staremo a vedere come va avanti questa storia della pandemia, ma intanto giochiamo online. Facciamo buon viso a cattivo gioco e, come sempre:
Alla fine è giunto il momento di sporcarsi le mani. Giocare a un gioco di ruolo ispirato da Lovecraft è sempre stato un mio desiderio, ma mi sono volutamente astenuto dal farlo per una serie di motivi, che ho già spiegato in post precedenti, ma che si possono riassumere così: temevo di non essere all’altezza. Temevo che giocando a Call of Cthulhu o a qualche altro gioco ispirato dall’opera del Sognatore sarei rimasto deluso. Deluso dal gioco, che avrebbe potuto rivelarsi poco coinvolgente o poco tematico, deluso da me stesso come Master (o Custode, che dir si voglia), deluso dai giocatori, che avrebbero potuto rivelarsi poco inclini a ricreare le atmosfere lovecraftiane, finendo per giocare un gioco-frankenstein con le regole di Cthulhu e il sapore di D&D.
Ho quindi fatto quello che riesco a fare meglio: procrastinare, analizzare, soppesare, meditare. Prepararmi finché non mi sento sicuro. Che poi lo sanno tutti che quando uno fa così non si sentirà sicuro mai: “salta, e la rete apparirà” diceva il saggio. Il che è facile quando di una cosa ti frega solo fino a un certo punto. Se per esempio decidessi di provare Cyberpunk mi leggerei il manuale, tirerei insieme un canovaccio e via, ma Lovecraft è sacro. La paura di giocare a qualcosa che mi fa così gola e scoprire che invece è “meh” è troppo forte. Suono davvero come un nerd fragilissimo, lo so, ma sospetto che siamo in tanti. Tanto per far capire fino a che punto può arrivare il mio evitamento: non ho mai fatto vedere a mia moglie la trilogia completa di Guerre Stellari (se avete domandato “quale trilogia?” uscite di qui). Perché? Perché non riuscirei a sopportare una reazione che non fosse più che entusiastica. E siccome so che la reazione non sarebbe più che entusiastica perché mia moglie non si entusiasma per niente, soprattutto per le cose che piacciono a me, preferisco vivere nel dubbio, o meglio ancora coltivare l’illusione che se guardasse la dannata trilogia le piacerebbe tantissimo, ma proprio un casino. Mi chiederebbe persino di vedere anche la trilogia dei prequel, e io, con la trepidazione dell’appassionato che si fa carico di introdurre una mente vergine al Verbo, mi godrei i suoi commenti indignati sui buchi della trama, le incongruenze logiche, la mancanza della continuità con la trilogia originale, la noia assurda delle parentesi politiche, il disgusto per un personaggio come Jarjar Binks. Sarebbe un momento di comunione spirituale a livelli altissimi, una pietra miliare del nostro matrimonio che a confronto la nascita dei figli è stato un evento ordinario.
E invece no. Perché le probabilità che cose si verifichino diversamente sono schiaccianti. Tipo 9 a 1 o giù di lì. Il massimo che potrei ottenere sarebbe un distratto “carino” che suona come una presa per i fondelli. Quindi evito – mi crogiolo nelle illusioni ed evito.
Con Lovecraft è stato un po’ così, finché mi sono detto che la vita è breve e che è meglio una giocata venuta male che non giocare mai. Come dire che la perfezione è una chimera, una scusa per l’immobilismo.
E allora via: ieri sera l’abbiamo fatto. Avventura pubblicata di stampo introduttivo (Blackwater Creek), da giocare in una sera tanto per vedere come me la cavo e come se la cavano i giocatori. Le condizioni di partenza non erano proprio ideali: un Custode alle prime armi con il regolamento, e quattro giocatori completamente a digiuno del medesimo. Quando dico a digiuno intendo proprio inconsapevoli, del tipo “che dadi si usano in questo gioco?”. A ciò si aggiunga che solo uno su quattro conosce abbastanza Lovecraft, due su quattro hanno letto qualche racconto e uno non lo aveva mai sentito nominare. Far conoscere l’orrore cosmico a chi non ha mai letto Lovecraft è come descrivere i colori a un daltonico, ma quando decido di buttarmi deve essere senza paracadute perché – cacchio – devo vedere il sangue, e non importa se è il mio.
Alla fine ne sono uscito piuttosto soddisfatto. I giocatori sembrano essersi divertiti, l’atmosfera c’era e l’avventura è andata liscia come l’olio. Per inciso, è terminata in tre ore, con una scena madre in cui due investigatori sono scappati nei boschi in preda alla follia, uno è svenuto solo per essere consumato dall’Innominabile, e uno si è sparato una fucilata in bocca. Un successone! C’è da dire che i miei giocatori sono assuefatti al mio stile. Pure senza conoscere Lovecraft hanno avuto un forte deja vu perché il mio modo di masterizzazione horror risente moltissimo dell’influenza lovecraftiana. O, se volete, sono anni che giocano horror cosmico senza saperlo.
Non ci sono andato pesante con il regolamento, non aveva senso ammorbare tutti con dettagli minuziosi: la storia prima di tutto. Nelle prossime avventure introdurremo gradualmente dettagli meccanici, a partire dalla creazione del personaggio, che questa volta non è stata necessaria perché si trattava di personaggi pre-generati.
Il fatto è che a me il rugginofago piace pure, almeno come concetto: si tratta di un mostro che non si ciba di avventurieri, ma di qualcosa a cui loro tengono più che alla loro stessa vita: l’equipaggiamento. Però è vero anche che questo mostro puzza di bastardata del Master lontano un chilometro. La sanno tutti che è lì solo per liberare i personaggi di tutto quel metallo tanto faticosamente accumulato, e quando accade per rimediare goffamente a qualche errore del Master che ha dato una spada +5 vorpal sull’onda dell’emozione e poi se n’è pentito, questo mostriciattolo equivale a indossare una maglietta con su scritto “sono un Master di merda”.
C’è modo di salvarlo? Boh, intanto partiamo dal presupposto che un mostro così non deve MAI essere un mostro errante, o buttato lì a casaccio. Deve essere il cardine di un’avventura. Ci dovrebbe essere una specie di gentlemen’s agreement secondo cui una porcheria simile richieda che i giocatori abbiano il tempo di prepararsi.
In secondo luogo proviamo ad analizzare la sua fisiologia e il suo ecosistema di riferimento. Intanto: come si può evolvere un animale che si ciba solo di metallo? Non può. Il metallo in natura esiste solo in concentrazioni basse e di solito incastonato in parecchi metri cubi di roccia. Il manuale dice che si tratta di un’aberrazione, il che dovrebbe spiegare tutto, ma in fondo non spiega un fico secco. Diciamo allora che il rugginofago è un errore, un esperimento mal riuscito di qualche mago pazzo. Espediente loffio, ma per ora ce lo facciamo bastare. A cosa gli serve il metallo? A sopravvivere? Niente si ciba di metallo, un essere a base di carbonio non sa cosa farsene se non in quantità infinitesimali. Cosa potrebbe rendere necessaria una dieta con un’integrazione di metallo così importante? Dalla risposta a questa domanda dipendono le possibili varianti “rimpolpate” del rugginofago.
Ipotesi 1: il ferro è un integratore
Forse gli manca il ferro come alle capre manca il sale. Non è essenziale per la sopravvivenza, ma nel lungo periodo ne ha bisogno perché gli serve per i processi di ossidazione a livello di emoglobina. Poi magari ne assume una quantità smodata ma ne trattiene solo una minima parte, ma si è evoluto così, poveraccio, gliene vogliamo fare una colpa?
Se è proprio il ferro che va a cercare, non gli serve a nulla attaccare le armi degli avventurieri, che possono essere di bronzo o di acciaio. Anzi, possiamo assumere che la maggior parte della armi degli eroi non sia di ferro. Il rugginofago così immaginato però potrebbe attaccare le cotte di maglia di ferro, le fibbie delle giberne e delle cinture ecc., ma non può basare la propria sopravvivenza sugli sporadici incontri con gli avventurieri. Per lo più infesta le miniere, le caverne ricche di vene ferrose e le montagne con rocce piene di ossido di ferro, e si dedica agli accessori degli avventurieri solo come ghiottoneria occasionale. Quello che potrebbe renderlo interessante è il suo uso come aggancio per avventure. I personaggi non devono subirlo, devono andarlo a cercare. Una colonia di rugginofagi può essere un flagello per una miniera, e i minatori nani faranno di tutto pur di liberarsi di questi temibili competitori. Insomma, un’alternativa alla cantina infestata dai topi presente in tutte le campagne di basso livello. Ma pensiamo a dei rugginofagi piccoli, diciamo come topi. E pensiamo che delizia per i prigionieri delle segrete di un castello potersi procurare anche uno solo di questi piccoli amici… combiniamo le due idee e otteniamo una mini-campagna basata sulla cattura dei rugginofagi in una miniera infestata e sulla loro introduzione clandestina in una prigione.
Ipotesi 2: disintegra tutto il metallo e assimila la polvere di metallo
.. che è precisamente quello che sembra fare se si segue il manuale dei mostri. E cosa se ne fa? Per esempio si costruisce una corazza di metallo, letteralmente cresciuta intorno a un corpo altrimenti molliccio e indifeso. Quindi un rugginofago debole, ma con Classe di Armatura 34. Come lo abbattiamo senza armi di metallo? E quanto può far gola la corazza, che può essere fusa per ricavarne cinque o sei metalli diversi?
Ipotesi 3: non disintegra, teletrasporta.
E perché no? Magari Rugginofago è solo il cognome. In realtà le antenne toccano tutti gli oggetti magici e li spediscono in un luogo deciso dallo stesso mago pazzo che ha creato il rugginofago. Missione: trovare il padrone e strappargli tutti i peli del naso finché non restituisce il maltolto. E se le antenne funzionassero anche nei confronti di creature incantate? Da un lato questa proprietà potrebbe essere usata come escamotage per raggiungere il proprio equipaggiamento (basta un incantesimo benedizione per diventare una preda appetibile per il rugginofago), dall’altro potrebbe essere un sistema per catturare creature magiche.
Insomma, non so se queste idee possono servire a rendere interessante questo vecchio catorcio di mostro, ma qualche spunto qua e là non guasta di certo.
Chiacchierando del più e del meno nei commenti, Mr Mist ha buttato lì la parola magica “Ravenloft”. E’ stato come aprire una diga, tipo “Ricerca del Tempo Perduto”. Erano anni che non ci pensavo, ma l’ambientazione Ravenloft mi è rimasta nel cuore, nonostante non ci abbia giocato tantissimo, perché è quella che mi ha traghettato dai lidi fracassoni e brancaleoneschi di D&D in salsa Mystara alle atmosfere più evocative del gioco horror. Poi ho scoperto il World of Darkness e sono entrato in brutte compagnie… ma questa è un’altra storia. Mi sono tornati i mente i miei esperimenti dei primi anni di masteraggio, la ricerca incessante di “cose nuove”, l’avida lettura di ambientazioni dalla prima all’ultima pagina per il solo gusto di poterlo fare (beata gioventù: ma prima di avere figli, quando dicevo “non ho tempo” cosa intendevo in realtà?).
Quindi voglio fare un gioco: mettere in ordine di gradimento le ambientazioni ufficiali di D&D a cui sono stato esposto negli anni, stilando la classifica delle mie prime cinque ambientazioni preferite. Ditemi se siete d’accordo con le mie valutazioni, e commentate facendo la vostra personale classifica.
Quinta posizione:
E’ quella con cui ho incominciato. Il Granducato di Karameikos, con la cittadina di La Soglia, è stato il teatro delle nostre avventure per molti anni. Ricordo la meraviglia iniziale: un mondo intero di fantasia, pieno zeppo di cose meravigliose e interessanti. Anche solo per l’effetto nostalgia, Mystara non poteva mancare nelle prime cinque. Anche se…
…gli anni sono stati inclementi con lei. Già durante il gioco, superata la prima fase in cui tutto era bello, emersero alcuni limiti di questo mondo. Innanzitutto il world building di Mystara era palesemente “from bottom to top”, cioè si aggiungevano pezzi man mano che servivano. L’ambientazione Karameikos era una specie di Transivania medievale senza eccessive pretese di coerenza. Un territorio più o meno grande come la Lombardia, di fianco al quale, invece che il Veneto, si trovava un deserto caldo, con tanto di predoni, cammelli e una cultura modellata sull’Arabia. Ti spostavi un po’ et voilà, eccoci nei fiordi di Soderfjord, con vichinghi e clima freddo. Se invece andavi a Nord-Ovest: bam! sbattevi contro un muro di roccia popolato di Nani, e più a sud una megaforesta piena di Elfi. Ma bastava proseguire un po’ più a Ovest ed ecco Glantri, dominato dai maghi. Vuoi i nativi americani? Atruaghin. E che dire delle bizzarre isolette “turistiche” di Ierendi? Un guazzabuglio, preso nel suo complesso. Molto ben fatte e affascinanti le micro-ambientazioni, se prese singolarmente (anche se non tutte: alcune, come la stessa Ierendi, erano bambinesche e troppo infarcite di clichè). Se oggi dovessi ambientare una campagna in Mystara, prenderei un solo modulo della serie “Gazeteer”, quello che mi ispira di più al momento, e lo dilaterei per farne una zona di mondo più ampia, lasciando indefiniti i regni limitrofi e facendo in modo da contenere tutta la campagna nel sandbox così creato.
Quarta posizione:
Qui è dove il mio cuore riposa. Quando parto con la fantasia, finisco sempre nei Reami. E’ vasto, complesso, epico, moderatamente coerente al suo interno, del tutto implausibile in termini assoluti. High magic a livelli da manicomio, personaggi larger than life resi ancor più popolari dalla serie infinita di libri ambientati nei Reami. Ogni pietra ha una storia, ogni rovina ha un background. Forse il suo limite è proprio questo: lo scarso spazio per la personalizzazione unito alla popolarità dell’ambientazione rendono la creazione di una campagna nei Reami un vero percorso a ostacoli per chi ha dei giocatori non di primo pelo. Se un giocatore ti dice “andiamo a Luskan” non puoi certo rispondergli “nella mia versione dei Reami, Luskan non esiste”. C’è, e lui si aspetta di trovarla più o meno dove e come si ricorda dall’ultimo libro-fumetto-videogioco-vattelapesca. Un altro aspetto che può non piacere a tutti è il pantheon sterminato e la tendenza degli dèi a intervenire indirettamente in ogni minutissimo aspetto della vita del mondo. Praticamente ogni cosa che succede ha dietro un culto di qualche divinità minore, che cerca di sopraffare gli Arpisti che a loro volta combattono la chiesa di Cyric, ma intanto Bane è risorto e si è alleato con Velsharoon, mentre prima non si potevano vedere, e intanto il semidio Pdorr, figlio di Kmerr, è asceso alla divinità e “che fine ha fatto Waukeen?” e così via, peggio di Beautiful. Tener traccia di queste trame non è facile. Puoi sempre dare un colpo di spugna, ma parte del fascino dell’ambientazione secondo me sta proprio in questo, quindi…
Un altro problema non nasce dall’ambientazione in sè, ma dal fatto che ogni edizione di D&D ha la sua versione dei Reami. AD&D ambientava il tutto in certo tempo, la 3.5 proseguiva su quella falsariga aggiungendo qualche anno e tenendo conto dei romanzi, nel frattempo divenuti canone. La Quarta Edizione ha inventato un cataclisma di proporzioni mondiali per poter fare un po’ di pulizia delle incrostazioni accumulatesi negli anni, e ha spostato l’azione nel futuro di – mi pare – un centinaio di anni. La Quinta edizione ha preso i Reami come ambientazione di default, mollando definitivamente ogni ormeggio con la poco supportata Greyhawk e apportando altri cambiamenti.
Insomma, Forgotten Realms si becca una quarta posizione e più su non va, anche se la amo.
Terza posizione:
Eh, sì. Qui ci sarebbe da scrivere un tomo di cinquecento pagine. Da dove iniziare? Intanto dal fatto che grazie a Ravenloft ho incominciato a capire che si poteva giocare horror, e che – perdiana – era una vera figata. Poi aggiungerei che all’epoca rappresentava una vera pietra miliare, un cambio di toni molto coraggioso per un mercato legato allo Sword & Sorcery sin dai primordi. E poi ancora (in ordine sparso): atmosfera ineguagliabile, il primo modulo (che diede origine all’intera ambientazione) era e resta tuttora un capolavoro assoluto, costruzione modulare con l’escamotage della “nebbia” per rendere permeabili i confini dei regni ma solo quando conviene, un trucco che fu implementato in maniera sempre più convincente nei vari moduli e finì per diventare il marchio di fabbrica dell’ambientazione. La possibilità di giocare mini-campagne in un’ambientazione a tema con il genere horror che si voleva toccare senza cambiare ogni volta le regole. I Vistani, zingari misteriosi che più clichè di così non si può, ma imprescindibili. L’oggettiva qualità di alcuni moduli. L’accento sulla costruzione dell’atmosfera, con descrizioni ambientali che con il senno di poi erano un po’ barocche e pompose, ma rappresentavano un passo avanti rispetto a quella che all’epoca era l’interazione al tavolo da gioco. Una comunità online viva e dedicata alla causa con una devozione commovente (vi ricordate il sito Secrets of the Kargatane?).
Le note dolenti, per come le ricordo io, erano: inadeguatezza del sistema nel gestire un’azione orientata all’orrore; pesante affidamento su strutture inadatte, mutuate da D&D: gli stessi incantesimi vanciani erano loffissimi in quel contesto; ambientazioni orrorifiche palesemente stridenti con le classi del gioco e il suo generale tono pseudo-medievale: tanto per fare un esempio, nel modulo Ravenloft, Barovia è chiaramente modellata sulla Transilvania di Dracula, e le illustrazioni riprendono l’estetica dei film con Vincent Price, con tanto di organo a canne suonato dalla figura ammantata, mentre il tutto viene gestito con un livello tecnologico medievale. Lo stesso Castel Ravenloft dal punto di vista architettonico era il classico bestione gotico decadente, non un castello trecentesco appena costruito per esigenze puramente belliche.
Nel complesso, una pietra miliare a cui sono affezionato.
Seconda posizione:
Il mio amore e il mio rimpianto. Dark Sun per me è come quelle fidanzatine che hai a quindici anni, di cui ti innamori perdutamente e che dopo tre mesi ti mollano senza aver potuto davvero capire se fosse tutto oro quello che luccicava. Scoperta per caso tramite i romanzi della “Pentalogia del Prisma” (scritti maluccio, peraltro) questa ambientazione mi è rimasta nel cuore, ma non sono mai riuscito a convogliare nei miei giocatori gli stessi sentimenti. Già le premesse, per uno che veniva da Forgotten Realms, erano sconvolgenti: la magia prende forza dalla vita circostante, per cui se ne abusi fai avvizzire e morire tutto quanto intorno a te; molto tempo fa, i re-draghi, maghi potentissimi, hanno devastato il mondo intero guerreggiando tra loro a colpi di magia. Il risultato è un mondo post-atomico, in cui la magia è odiata e temuta, dove poche città stato, rette dai re-draghi, lottano per accaparrarsi le poche risorse rimaste. Niente metallo, o quasi. Niente acqua, o quasi. Niente magia, o quasi. Gli halfling sono dei selvaggi cannibali. Gli elfi sono predoni del deserto. I Nani non hanno la barba e sono calvi. E poi una pletora di creature, un ecosistema completo, nuove razze, comprese delle mantidi senzienti che ricordano i romanzi di Borroughs. Niente dèi! Solo i re-draghi, che conferiscono gli incantesimi ai loro chierici e sono venerati come divinità. E poteri psionici. E le illustrazioni di Brom, capolavori assoluti.
Pazzesco.
Ho imbastito una campagna curando ogni minimo dettaglio, compresi i ritratti dei personaggi a colori. Ho cercato di distillare in ogni scena ogni singolo grammo di coolness di cui era dotata l’ambientazione, ma la campagna è scivolata via senza lasciare tracce, e di Dark Sun non si è parlato più. Peccato.
Prima Posizione:
E’ curioso che la mia ambientazione preferita sia anche quella di cui faccio più fatica a parlare. Dire perché Planescape mi fa impazzire è come cercare di individuare i motivi per cui ami una donna, tanto per rimanere nelle metafore amorose.
Potrei lodare la ardita costruzione cosmologica, completamente fantasy, nel senso che prescinde del tutto dalle nozioni fisiche relative al nostro universo: è davvero un altro universo che obbedisce ad altre leggi e si inserisce su un’ambientazione che già di suo è high fantasy. Potrei tirare in ballo la varietà delirante di mondi paralleli, ciascuno con le sue leggi fisiche e il suo alineamento morale dominante. Potrei citare il sistema delle fazioni, raggruppamenti sociali che hanno come fondamento ciascuno un diverso approccio al multiverso e una diversa spiegazione della sua finalità ultima. Oppure evidenziare le implicazioni simboliche di cui è densa quest’ambientazione. Il gergo bizzarro dei visitatori dei mondi paralleli. La città di Sigil, al centro della Grande Ruota, che ha una forma di toroide cavo e fluttua intorno a un pinnacolo roccioso alla base del quale si trovano i passaggi verso i mondi, e che rappresenta di per sè un’ambientazione completa e iperdettagliata. Non vi basta? Tiè, beccatevi pure le illustrazioni di Di Terlizzi. Ne volete ancora? Siore e siori, mi voglio rovinare: un gioco per pc che enfatizza il ragionamento invece che le botte ed è uno dei migliori rpg per computer che ci sia mai stato.
Probabilmente Planescape merita un post dedicato, una retrospettiva completa su questo prodotto che per me è stato il picco della follia creativa che animava i primi anni Novanta ed è poi implosa nella crisi di mercato da cui si è usciti solo anni dopo, con la licenza d20. E’ comprensibile: dopo Planescape non poteva esserci che il nulla.
Ho giocato molto a Planescape, anche se i miei giocatori non se ne sono mai accorti. Partivamo da mondi conosciuti e io innestavo un collegamento che portava i giocatori a esplorare di volta in volta i vari aspetti della cosmologia di Planescape, con l’escamotage del portale o del viaggio planare. Questa ambientazione è così fusa nell’immaginario collettivo del nostro gruppo di gioco abituale, che tutti sono convinti che non sia un’ambientazione a parte, ma l’ambientazione planare standard di tutte le versioni di D&D. E’ così potente che ci ha fatto cestinare senza pietà la cosmologia standard dei Forgotten Realms, sostituendola totalmente.
Ecco qui. Questa è la mia top five personale. Del tutto soggettiva, umorale, non scientifica e totalmente opinabile. Avanti, dite la vostra.
Questa puntata di Monster Makeover è dedicata ai Grimlock, una razza di umanoidi che vivono sottoterra, completamente ciechi. In realtà non si tratta di un vero e proprio makeover, nel senso che le statistiche del mostro non saranno toccate. Ho scelto il grimlock perché mi dà modo di ragionare su un aspetto dei mostri nei GDR fantasy, o meglio su un modo di presentarli che a mio avviso toglie mordente anche ai mostri più interessanti. Il grimlock di per sè non è un mostro scialbo, ma è presentato in maniera stereotipata e piatta nei manuali, spesso corredati di illustrazioni non proprio all’altezza della situazione. Il risultato è che nessuno lo usa. Qualcuno ha mai usato il grimlock nelle sue campagne? Ecco, appunto. Se devi popolare una caverna il più delle volte vai sul sicuro e ci schiaffi dentro i soliti goblin o coboldi (al primo livello) per poi muoversi verso creature più letali ai livelli inferiori.
Leggendo la descrizione del grimlock nel Manuale dei Mostri di D&D 3.5, scopriamo che i grimlock sono umanoidi con una pelle grigia, scagliosa, e orbite prive di occhi, che vivono nelle profondità della terra ed escono in superficie per catturare schiavi e depredare. Apprendiamo che amano mangiare carne fresca e cruda, preferibilmente umana.
Messa così, a me sembra molto promettente. Perché? Perché io mi immagino questo:
o questo:
ma di sicuro non questo:
e neanche questo:
Non voglio dire che siano illustrazioni brutte, anche se il primo mi ricorda Gargamella e il secondo uno dei Twisted Sisters. Voglio dire che molti mostri hanno descrizioni che danno adito a immagini mentali vivide e paurose, ma una volta “visti” sulla carta perdono intensità. Il Solitario di Providence ha più volte sottolineato che la paura più grande è la paura dell’ignoto. Mostri che vivono al buio, sottoterra, devono avere una connotazione aliena e orrorifica, non possono essere trattati come “normali” avversari da affrontare spada in pugno con lo stesso spirito con cui si affronta una battaglia in campo aperto. Finché è possibile, non vanno mostrati. Devono essere preceduti da inquietanti segni della loro presenza, intravisti con la coda dell’occhio, percepiti nell’oscurità totale prima che sentiti. E non vanno mai, MAI nominati. Descrivere un orrore indicibile alto come un palazzo, con testa da calamaro e ali membranose, che nuota verso di voi sollevando onde gigantesche fa paura, chiamarlo Cthulhu lo addomestica, anche solo un po’. Siamo d’accordo che D&D non è un gioco horror, ma un minimo di atmosfera è necessario crearla, soprattutto con mostri con un potenziale come il grimlock.
Quindi il makeover questa volta non è propriamente rivolto al mostro, ma al modo in cui lo si presenta ai giocatori. Accidenti, a ben vedere persino il verme-iena, che in D&D è una difficoltà minore, quasi comica per personaggi di livello alto, se inserito in una campagna di Mondo di Tenebra, potrebbe essere presentato in modo da far strizzare le chiappe a chiunque.
E qui mi sento di dare un consiglio agli amici Master che non abbiano già questa buona pratica: non nominate mai i mostri ai giocatori. Siamo d’accordo: un goblin è un goblin, ma se è così famigliare non dovreste neppure inserirlo nelle avventure. Ma tutti gli altri, specialmente quelli poco usati, devono rimanere il più possibile ignoti ai giocatori. Non mostrate la loro illustrazione, nemmeno se è bellissima, e non date loro un nome. Prima o poi, a battaglia finita, un giocatore vi chiederà: “Cos’era?” Resistete alla tentazione di dirlo! Se proprio la situazione lo richiede, per esempio se il personaggio è uno studioso di mostri e vuole fare una prova per vedere se riconosce la creatura, potete concedergli la prova e se la prova riesce inventate una descrizione, aggiungete dettagli e possibilmente due o tre nomi alternativi. Per esempio:
“Sembra un Nano, ma questa grottesca caricatura non potrebbe essere definito Nano nemmeno dal più fantasioso degli artisti visionari. Ha la pelle grigio-azzurra, è piccolo, contorto, tozzo, ha una smorfia malvagia sulla faccia e strane cicatrici rituali, probabilmente autoinflitte, sulle braccia e sul collo. Gli occhi privi di pupilla, lattiginosi, sono spalancati nel rictus della morte ma conservano un’espressione malevola. Hai già sentito parlare di queste creature, ma credevi che esistessero solo nelle favole fatte per spaventare i bambini. Vengono detti I Folli, o i Nani dell’Abisso, o anche solo I Maledetti”
è molto più efficace di:
“E’ un Derro.”
Tra l’altro, quando riutilizzerete la stessa descrizione, i giocatori più svegli assumeranno l’espressione luminosa e partecipativa di chi ha riconosciuto la creatura e magari proromperanno in uno spontaneo “li abbiamo già incontrati, quella volta là nelle gallerie sotto Undermountain!” e vi assicuro che, da Master, io VIVO per questi rari momenti. Viceversa, se la volta prima avete dato loro un nome, l’atteggiamento sarà quello del deja vu, della sufficienza. Ah, sì, quei cosi là.
Sono un razionalista. Vivo in un mondo che obbedisce a leggi strettamente deterministiche, ogni causa ha molti effetti, ogni effetto spesso ha molte cause. Non esiste il paranormale, nel senso che tutto ciò che esiste è, per definizione, reale, mentre ciò che non esiste, non esiste. Il che significa che se accade qualcosa che non riesco a spiegarmi, indago. Se non trovo una spiegazione, non ricorro ai fantasmi, agli spiriti, agli omini verdi nè a una qualche divinità non meglio precisata. Semplicemente, sono di fronte a un fenomeno che non sono in grado di spiegare. Non vuol dire che non ci sia una spiegazione, ma solo che io, o per quanto ne so, l’umanità intera, non ha ancora trovato il modo di conoscere il fenomeno e spiegarlo negli unici termini consentiti dalle leggi della fisica.
Può sembrare arido, può sembrare noioso, ma questo è l’atteggiamento scientifico razionalista.
Ora, se guardate un po’ di film e serie tv a tema orrorifico (molto meno nei libri), scoprirete che più o meno in tutti esiste una figura che io chiamo il “razionalista sbagliato”. Chi è costui? E’ quello che va in giro in stato di shock ripetendo come una ottusa macchinetta “ci deve essere una spiegazione razionale per questo”. Incontra un gruppo di alieni ostili che gli sparano addosso. “E’ impossibile”. Una suora defunta da tre secoli lo insegue nei corridoi di un monastero infestato. “Ci deve essere una spiegazione razionale”. Un fantasma giapponese incazzato nero gli si manifesta a un metro dalla faccia e un attimo prima che gli azzanni la giugulare l’imbecille balbetta “E’.. E’.. un incubo… non può essere vero!” e chiude gli occhi e ovviamente muore. Oppure (ed è la peggior specie) minimizza, nicchia, ritarda il momento in cui è ora di passare all’azione, convince tutti che si stanno preoccupando per niente. Un’orda di spiriti vendicativi prende in ostaggio la cittadina americana. “Dottore, cosa dobbiamo fare?” e lui, con il sorrisetto di sufficienza di Piergiorgio Odifreddi: “Niente, è un fenomeno elettrico corredato con isteria di massa”. Inutile dire che la soluzione sarebbe stata l’evacuazione completa e tutti creperanno male.
Comprendo perfettamente l’esigenza narrativa alla base di questo archetipo. L’incredulo è necessario per molti motivi. Innanzitutto fa da contraltare al credulone, anche questo sempre presente nella troupe di sfigati mandati al massacro. Quello che si fa prendere subito dal panico. “Cos’è stato quel rumore?” “MORIREMO TUTTIIIII”
In secondo luogo serve a rafforzare il concetto secondo cui quello che sta succedendo è soprannaturale. E se è soprannaturale, le leggi della fisica non possono spiegarlo. E se è soprannaturale, ci vuole qualcuno che me lo dica che è soprannaturale, perché pensa un po’ che cretino, io credevo che le persone volassero e passassero attraverso le pareti.
Tra l’altro l’incredulo muore sempre, e non vedi l’ora che accada, è per questo che lo fanno così antipatico. Non c’è niente di meglio di un saccente razionalista che viene punito per la sua mancanza di fede, maledetto piantagrane. Invece di accettare immediatamente la premessa assurda su cui si basa la narrazione, ha l’impudenza di non crederci, di mettere in dubbio. Allora muori, preda!
Io non credo che l’incredulo sia un razionalista, credo che sia un personaggio scialbo scritto da autori pigri che vivono di clichè. Un razionalista vero ha un istinto di sopravvivenza forte tanto quanto chiunque altro (anzi, probabilmente è anche ateo quindi per lui la vita finisce quando finisce). Un razionalista vero, contrariamente a un grullo che crede nelle favole, è perfettamente in grado di trarre da premesse ignote o palesemente assurde delle conseguenze logiche. Un fantasma sta devastando la stanza? Non ho idea di cosa sia, ma ha il potere di schiantarmi addosso un comò, quindi lo tratto come una minaccia. Ignota, ma sempre minaccia è. Rumori di stoviglie rotte in cantina? Non ci vado disarmato tanto per far vedere che “non è niente”. Ci vado armato, anche perché pure un tasso può essere pericoloso se si sente in trappola.
Razionalista non significa stupido. Il medico che visita una donna visibilmente incinta di quattro mesi che il giorno prima non lo era e afferma di essere stata visitata nella notte dal marito morto COME MINIMO richiede analisi mediche approfondite, non una scrollata di spalle e un assurdo “è sotto shock e la gravidanza è isterica”.
Che poi anche nella realtà esistono individui che passano per razionalisti e scienziati e in realtà sono la versione reale dell’incredulo dei film horror. Quando un pilota di un boeing 747 mi dice che un oggetto non identificato volava di fianco al suo velivolo sono portato a crederci e ad approfondire, se non altro perché lui è addestrato e – si spera – psicologicamente stabile, e ha tutto da perdere a rivelare certe esperienze. Quindi, forse, dice la verità. Se non trovo una spiegazione il fatto resta non spiegato. Non scomodo gli omini verdi, ma non faccio neppure come Margherita Hack che si limitava a dire “l’è un pallone aerostatiho”. See, come no. Se non ha una spiegazione, lo scienziato lo ammette, non cerca di raffazzonarne una palesemente inadeguata perché “niente deve rimanere non spiegato”. Nel medioevo l’elettricità era magia, ma non è che non esistesse. Si verificava raramente e apparentemente a caso, e nessuno ci capiva niente. Ma c’era, e non era soprannaturale.
Ma sto divagando.
Sono stufo di personaggi piatti, tutti uguali e stupidi come i sassi del fiume. E’ così difficile creare il contrasto tra la normalità quotidiana e il fatto inspiegabile senza ricorrere all’abusata figura dell’incredulo? Non sarebbe forse meglio descrivere la situazione di partenza con dettagli ricchi, per immergere lo spettatore, e poi far succedere quello che succede senza tirar fuori dal cilindro l’odioso e spocchioso “finto-razionalista” che avvia tutti al disastro perché nega l’evidenza? Per carità, a me piace il genere horror ma riconosco che è un genere di nicchia, in cui il vero appassionato si presta ad ingurgitare ettolitri di fango pur di scovare quella scena perfetta, quel brivido ben fatto, quell’atmosfera rarefatta ed evocativa, e poco importa che il resto del film sia spazzatura. Però forse ci si potrebbe aspettare qualcosa di più al giorno d’oggi, o no?
Avere un gioco nel cassetto, pronto da testare, e non poterlo fare perché si deve mantenere la distanza sociale è una mezza tortura. Avrei potuto provarlo tramite i mezzi tecnologici su cui abbiamo ripiegato da un paio di mesi a questa parte, ma un beta testing è una cosa seria, perdinci e poffarbacco! Ho deciso di rimandare. Però la voglia di trovarci tutti intorno a un tavolo come ai “vecchi tempi” c’è ed è forte.
Divagando un po’… non vorrei finire come quel gruppo di vecchietti che aveva deciso di eludere il lockdown e si trovavano nel bosco per giocare a carte.
Li hanno beccati per le urla e le bestemmie. Per comprendere appieno il casino che dovevano fare quei topi da osteria è necessario avere presente la conformazione del territorio dalle mie parti. Sembra la fottuta Colombia. Questo è ciò che vedo dalla mia finestra:
Ma ve li immaginate? “CALA ‘STO SETTEBELLO, RIMBAMBI’! (…mbì …mbì …mbì”)
Tra un po’ finiremo così anche noi drogati di gdr, e tra le Alpi echeggerà un misterioso richiamo: