Call of Cthulhu e il gioco in remoto


Accidenti, uno si prende quei dieci anni di tempo per decidersi a giocare a un gioco che lo intimidisce, e dopo la seconda sessione ZAC!: la pandemia riprende vigore. Tutti a casa a giocare in remoto, perché ormai che vuoi fare? Lasciare un’avventura a metà? E quindi ci si deve organizzare, ingegnare, adeguare.

Diciamolo subito: il gioco di ruolo in remoto non mi piace molto, ma non giocare è peggio, quindi è una scelta obbligata. Si tratta di fare di necessità virtù, cercando di minimizzare gli svantaggi e massimizzare i vantaggi. Quali sono gli svantaggi? L’elenco è molto soggettivo, per alcuni addirittura non ce ne sono, per altri il gioco di ruolo online è una sorta di snaturamento del concetto stesso di GDR. Io mi colloco da qualche parte nell’ampia zona grigia che divide questi estremi.

Cose che non mi piacciono

  1. dover combattere con la connessione e con il software di appoggio, che può essere skype o meet o zoom o discord o roll20 o uno dei diecimila che sono apparsi alla ribalta durante il primo lockdown. C’è sempre uno che ha il microfono che non funziona, c’è sempre quello con la connessione lenta, c’è sempre la disconnessione selvaggia dietro l’angolo. E allora diventiamo tutti tecnici dell’assistenza da remoto: “Prova a verificare la connessione” “Vai nelle impostazioni” “Dove le trovo?” “In alto a destra!” “Qui dice Preferenze” “No più in basso” “scheda personaggio” “No più in alto” e via sproloquiando per ore. Ho guadagnato una forma di rispetto tutta nuova per i call center di assistenza, quei poveracci ne devono vedere di tutti i colori.
  2. la difficoltà nell’interpretare gli umori del gruppo. C’è qualcosa nel trovarsi faccia a faccia intorno a un tavolo che surclassa l’interazione via internet. Ciò è particolarmente vero per il master, che ha il difficile compito di far fluire il gioco in maniera più disinvolta possibile. Le piccole sfumature nelle espressioni dei partecipanti vanno perse. L’intonazione con cui sono dette alcune cose vanno perse. Gli sguardi tra i giocatori vanno persi. Anche una cosa banale come un lag di pochi centesimi di secondo può far la differenza tra un serrato botta-e-risposta e un imbarazzante guazzabuglio in cui tre persone parlano in contemporanea, poi si fermano e cominciano il balletto “prima tu, no prima tu” che al confronto le tenere schermaglie tra adolescenti innamorati gli fanno un baffo. Va detto che alcuni programmi prevedono una funzione che consente ai giocatori e al master di creare canali di comunicazione preferenziali, ma non è la stessa cosa. Come master mi sono sempre ritenuto sensibile alle sottigliezze dell’interazione dal vivo, e spesso le ho sfruttate per cucire esperienze di gioco che i miei giocatori hanno apprezzato. Ma online mi crolla tutto come un castello di carte. E’ tutto più rigido, più ingessato, meno fluido. E’ impossibile uniformare il volume dell’audio dei partecipanti, per cui alcuni “gridano” e altri “sussurrano”. Le espressioni facciali di chi ha una buona camera sono chiare, gli altri sono macchie indistinte. Potrei continuare per ore, ma credo che il concetto sia chiaro.
  3. dover contenere il mio istrionismo. Questa è molto personale, ma entra nell’elenco perché mi condiziona molto. A me piace abbandonare ogni riserva, descrivere le scene modulando la voce, alcune volte usando onomatopee e imitando accenti e rumori improvvisi, gesticolare senza ritegno e imitare i png. Quando gioco a casa devo fare i conti con i limiti imposti dalla presenza di due bambini con il sonno leggero e l’addormentamento difficoltoso, nonché con i vicini, che non sono rompiballe, ma hanno anche loro il diritto di non sentire me che faccio la voce del ghoul a mezzanotte.

Cose che mi piacciono:

Noi usiamo Roll20 e devo dire che è uno strumento davvero ottimo. A seconda dei giochi può essere più o meno utile, ma ha alcune caratteristiche che apprezzo molto.

  1. La videochat interna. Funziona bene ed è personalizzabile in molti modi. Le icone sono abbastanza grandi da dare l’illusione di un un gruppo di persone, ma non abbastanza da risultare ingombranti.
  2. Il tira dadi interno. Il funzionamento dipende molto dalla scheda del personaggio che si usa: alcune schede sono progettate molto bene e rendono il gioco molto spedito, perché calcolano tutto con la pressione di un pulsante. Nella chat appaiono i risultati ed è tutto. Dopo pochi minuti di adattamento è un’esperienza leggera e immersiva, molto di più che arrancare tra tiri multipli di dadi, che rotolano giù dal tavolo, finiscono nei sacchetti degli altri giocatori e fanno in generale molto disordine. In alternativa c’è un tira dadi che simula i dadi fisici, per chi vuole vedere rotolare qualcosa a tutti i costi.
  3. Gli effetti sonori e la musica di sottofondo. Personalizzabili, discreti o invadenti quando serve, gli effetti sonori sono stati proprio utili per cercare di compensare quel che si è perso a causa della mancanza delle persone dal vivo. Inoltre si possono inserire tutti gli effetti personali e gli accompagnamenti musicali che si vuole, la cui gestione è piuttosto semplice e che aggiungono davvero tanto alla sessione di gioco.

Ecco, per ora è tutto qui. Staremo a vedere come va avanti questa storia della pandemia, ma intanto giochiamo online. Facciamo buon viso a cattivo gioco e, come sempre:

keep gaming.

Le mie ambientazioni ufficiali di D&D preferite


Chiacchierando del più e del meno nei commenti, Mr Mist ha buttato lì la parola magica “Ravenloft”. E’ stato come aprire una diga, tipo “Ricerca del Tempo Perduto”. Erano anni che non ci pensavo, ma l’ambientazione Ravenloft mi è rimasta nel cuore, nonostante non ci abbia giocato tantissimo, perché è quella che mi ha traghettato dai lidi fracassoni e brancaleoneschi di D&D in salsa Mystara alle atmosfere più evocative del gioco horror. Poi ho scoperto il World of Darkness e sono entrato in brutte compagnie… ma questa è un’altra storia. Mi sono tornati i mente i miei esperimenti dei primi anni di masteraggio, la ricerca incessante di “cose nuove”, l’avida lettura di ambientazioni dalla prima all’ultima pagina per il solo gusto di poterlo fare (beata gioventù: ma prima di avere figli, quando dicevo “non ho tempo” cosa intendevo in realtà?).

Quindi voglio fare un gioco: mettere in ordine di gradimento le ambientazioni ufficiali di D&D a cui sono stato esposto negli anni, stilando la classifica delle mie prime cinque ambientazioni preferite. Ditemi se siete d’accordo con le mie valutazioni, e commentate facendo la vostra personale classifica.

Quinta posizione:

E’ quella con cui ho incominciato. Il Granducato di Karameikos, con la cittadina di La Soglia, è stato il teatro delle nostre avventure per molti anni. Ricordo la meraviglia iniziale: un mondo intero di fantasia, pieno zeppo di cose meravigliose e interessanti. Anche solo per l’effetto nostalgia, Mystara non poteva mancare nelle prime cinque. Anche se…

…gli anni sono stati inclementi con lei. Già durante il gioco, superata la prima fase in cui tutto era bello, emersero alcuni limiti di questo mondo. Innanzitutto il world building di Mystara era palesemente “from bottom to top”, cioè si aggiungevano pezzi man mano che servivano. L’ambientazione Karameikos era una specie di Transivania medievale senza eccessive pretese di coerenza. Un territorio più o meno grande come la Lombardia, di fianco al quale, invece che il Veneto, si trovava un deserto caldo, con tanto di predoni, cammelli e una cultura modellata sull’Arabia. Ti spostavi un po’ et voilà, eccoci nei fiordi di Soderfjord, con vichinghi e clima freddo. Se invece andavi a Nord-Ovest: bam! sbattevi contro un muro di roccia popolato di Nani, e più a sud una megaforesta piena di Elfi. Ma bastava proseguire un po’ più a Ovest ed ecco Glantri, dominato dai maghi. Vuoi i nativi americani? Atruaghin. E che dire delle bizzarre isolette “turistiche” di Ierendi? Un guazzabuglio, preso nel suo complesso. Molto ben fatte e affascinanti le micro-ambientazioni, se prese singolarmente (anche se non tutte: alcune, come la stessa Ierendi, erano bambinesche e troppo infarcite di clichè). Se oggi dovessi ambientare una campagna in Mystara, prenderei un solo modulo della serie “Gazeteer”, quello che mi ispira di più al momento, e lo dilaterei per farne una zona di mondo più ampia, lasciando indefiniti i regni limitrofi e facendo in modo da contenere tutta la campagna nel sandbox così creato.

Quarta posizione:

Qui è dove il mio cuore riposa. Quando parto con la fantasia, finisco sempre nei Reami. E’ vasto, complesso, epico, moderatamente coerente al suo interno, del tutto implausibile in termini assoluti. High magic a livelli da manicomio, personaggi larger than life resi ancor più popolari dalla serie infinita di libri ambientati nei Reami. Ogni pietra ha una storia, ogni rovina ha un background. Forse il suo limite è proprio questo: lo scarso spazio per la personalizzazione unito alla popolarità dell’ambientazione rendono la creazione di una campagna nei Reami un vero percorso a ostacoli per chi ha dei giocatori non di primo pelo. Se un giocatore ti dice “andiamo a Luskan” non puoi certo rispondergli “nella mia versione dei Reami, Luskan non esiste”. C’è, e lui si aspetta di trovarla più o meno dove e come si ricorda dall’ultimo libro-fumetto-videogioco-vattelapesca. Un altro aspetto che può non piacere a tutti è il pantheon sterminato e la tendenza degli dèi a intervenire indirettamente in ogni minutissimo aspetto della vita del mondo. Praticamente ogni cosa che succede ha dietro un culto di qualche divinità minore, che cerca di sopraffare gli Arpisti che a loro volta combattono la chiesa di Cyric, ma intanto Bane è risorto e si è alleato con Velsharoon, mentre prima non si potevano vedere, e intanto il semidio Pdorr, figlio di Kmerr, è asceso alla divinità e “che fine ha fatto Waukeen?” e così via, peggio di Beautiful. Tener traccia di queste trame non è facile. Puoi sempre dare un colpo di spugna, ma parte del fascino dell’ambientazione secondo me sta proprio in questo, quindi…

Un altro problema non nasce dall’ambientazione in sè, ma dal fatto che ogni edizione di D&D ha la sua versione dei Reami. AD&D ambientava il tutto in certo tempo, la 3.5 proseguiva su quella falsariga aggiungendo qualche anno e tenendo conto dei romanzi, nel frattempo divenuti canone. La Quarta Edizione ha inventato un cataclisma di proporzioni mondiali per poter fare un po’ di pulizia delle incrostazioni accumulatesi negli anni, e ha spostato l’azione nel futuro di – mi pare – un centinaio di anni. La Quinta edizione ha preso i Reami come ambientazione di default, mollando definitivamente ogni ormeggio con la poco supportata Greyhawk e apportando altri cambiamenti.

Insomma, Forgotten Realms si becca una quarta posizione e più su non va, anche se la amo.

Terza posizione:

Eh, sì. Qui ci sarebbe da scrivere un tomo di cinquecento pagine. Da dove iniziare? Intanto dal fatto che grazie a Ravenloft ho incominciato a capire che si poteva giocare horror, e che – perdiana – era una vera figata. Poi aggiungerei che all’epoca rappresentava una vera pietra miliare, un cambio di toni molto coraggioso per un mercato legato allo Sword & Sorcery sin dai primordi. E poi ancora (in ordine sparso): atmosfera ineguagliabile, il primo modulo (che diede origine all’intera ambientazione) era e resta tuttora un capolavoro assoluto, costruzione modulare con l’escamotage della “nebbia” per rendere permeabili i confini dei regni ma solo quando conviene, un trucco che fu implementato in maniera sempre più convincente nei vari moduli e finì per diventare il marchio di fabbrica dell’ambientazione. La possibilità di giocare mini-campagne in un’ambientazione a tema con il genere horror che si voleva toccare senza cambiare ogni volta le regole. I Vistani, zingari misteriosi che più clichè di così non si può, ma imprescindibili. L’oggettiva qualità di alcuni moduli. L’accento sulla costruzione dell’atmosfera, con descrizioni ambientali che con il senno di poi erano un po’ barocche e pompose, ma rappresentavano un passo avanti rispetto a quella che all’epoca era l’interazione al tavolo da gioco. Una comunità online viva e dedicata alla causa con una devozione commovente (vi ricordate il sito Secrets of the Kargatane?).

Le note dolenti, per come le ricordo io, erano: inadeguatezza del sistema nel gestire un’azione orientata all’orrore; pesante affidamento su strutture inadatte, mutuate da D&D: gli stessi incantesimi vanciani erano loffissimi in quel contesto; ambientazioni orrorifiche palesemente stridenti con le classi del gioco e il suo generale tono pseudo-medievale: tanto per fare un esempio, nel modulo Ravenloft, Barovia è chiaramente modellata sulla Transilvania di Dracula, e le illustrazioni riprendono l’estetica dei film con Vincent Price, con tanto di organo a canne suonato dalla figura ammantata, mentre il tutto viene gestito con un livello tecnologico medievale. Lo stesso Castel Ravenloft dal punto di vista architettonico era il classico bestione gotico decadente, non un castello trecentesco appena costruito per esigenze puramente belliche.

Nel complesso, una pietra miliare a cui sono affezionato.

Seconda posizione:

Il mio amore e il mio rimpianto. Dark Sun per me è come quelle fidanzatine che hai a quindici anni, di cui ti innamori perdutamente e che dopo tre mesi ti mollano senza aver potuto davvero capire se fosse tutto oro quello che luccicava. Scoperta per caso tramite i romanzi della “Pentalogia del Prisma” (scritti maluccio, peraltro) questa ambientazione mi è rimasta nel cuore, ma non sono mai riuscito a convogliare nei miei giocatori gli stessi sentimenti. Già le premesse, per uno che veniva da Forgotten Realms, erano sconvolgenti: la magia prende forza dalla vita circostante, per cui se ne abusi fai avvizzire e morire tutto quanto intorno a te; molto tempo fa, i re-draghi, maghi potentissimi, hanno devastato il mondo intero guerreggiando tra loro a colpi di magia. Il risultato è un mondo post-atomico, in cui la magia è odiata e temuta, dove poche città stato, rette dai re-draghi, lottano per accaparrarsi le poche risorse rimaste. Niente metallo, o quasi. Niente acqua, o quasi. Niente magia, o quasi. Gli halfling sono dei selvaggi cannibali. Gli elfi sono predoni del deserto. I Nani non hanno la barba e sono calvi. E poi una pletora di creature, un ecosistema completo, nuove razze, comprese delle mantidi senzienti che ricordano i romanzi di Borroughs. Niente dèi! Solo i re-draghi, che conferiscono gli incantesimi ai loro chierici e sono venerati come divinità. E poteri psionici. E le illustrazioni di Brom, capolavori assoluti.

Pazzesco.

Ho imbastito una campagna curando ogni minimo dettaglio, compresi i ritratti dei personaggi a colori. Ho cercato di distillare in ogni scena ogni singolo grammo di coolness di cui era dotata l’ambientazione, ma la campagna è scivolata via senza lasciare tracce, e di Dark Sun non si è parlato più. Peccato.

Prima Posizione:

E’ curioso che la mia ambientazione preferita sia anche quella di cui faccio più fatica a parlare. Dire perché Planescape mi fa impazzire è come cercare di individuare i motivi per cui ami una donna, tanto per rimanere nelle metafore amorose.

Potrei lodare la ardita costruzione cosmologica, completamente fantasy, nel senso che prescinde del tutto dalle nozioni fisiche relative al nostro universo: è davvero un altro universo che obbedisce ad altre leggi e si inserisce su un’ambientazione che già di suo è high fantasy. Potrei tirare in ballo la varietà delirante di mondi paralleli, ciascuno con le sue leggi fisiche e il suo alineamento morale dominante. Potrei citare il sistema delle fazioni, raggruppamenti sociali che hanno come fondamento ciascuno un diverso approccio al multiverso e una diversa spiegazione della sua finalità ultima. Oppure evidenziare le implicazioni simboliche di cui è densa quest’ambientazione. Il gergo bizzarro dei visitatori dei mondi paralleli. La città di Sigil, al centro della Grande Ruota, che ha una forma di toroide cavo e fluttua intorno a un pinnacolo roccioso alla base del quale si trovano i passaggi verso i mondi, e che rappresenta di per sè un’ambientazione completa e iperdettagliata. Non vi basta? Tiè, beccatevi pure le illustrazioni di Di Terlizzi. Ne volete ancora? Siore e siori, mi voglio rovinare: un gioco per pc che enfatizza il ragionamento invece che le botte ed è uno dei migliori rpg per computer che ci sia mai stato.

Probabilmente Planescape merita un post dedicato, una retrospettiva completa su questo prodotto che per me è stato il picco della follia creativa che animava i primi anni Novanta ed è poi implosa nella crisi di mercato da cui si è usciti solo anni dopo, con la licenza d20. E’ comprensibile: dopo Planescape non poteva esserci che il nulla.

Ho giocato molto a Planescape, anche se i miei giocatori non se ne sono mai accorti. Partivamo da mondi conosciuti e io innestavo un collegamento che portava i giocatori a esplorare di volta in volta i vari aspetti della cosmologia di Planescape, con l’escamotage del portale o del viaggio planare. Questa ambientazione è così fusa nell’immaginario collettivo del nostro gruppo di gioco abituale, che tutti sono convinti che non sia un’ambientazione a parte, ma l’ambientazione planare standard di tutte le versioni di D&D. E’ così potente che ci ha fatto cestinare senza pietà la cosmologia standard dei Forgotten Realms, sostituendola totalmente.

Ecco qui. Questa è la mia top five personale. Del tutto soggettiva, umorale, non scientifica e totalmente opinabile. Avanti, dite la vostra.

Monster makeover – Grimlock


Questa puntata di Monster Makeover è dedicata ai Grimlock, una razza di umanoidi che vivono sottoterra, completamente ciechi. In realtà non si tratta di un vero e proprio makeover, nel senso che le statistiche del mostro non saranno toccate. Ho scelto il grimlock perché mi dà modo di ragionare su un aspetto dei mostri nei GDR fantasy, o meglio su un modo di presentarli che a mio avviso toglie mordente anche ai mostri più interessanti. Il grimlock di per sè non è un mostro scialbo, ma è presentato in maniera stereotipata e piatta nei manuali, spesso corredati di illustrazioni non proprio all’altezza della situazione. Il risultato è che nessuno lo usa. Qualcuno ha mai usato il grimlock nelle sue campagne? Ecco, appunto. Se devi popolare una caverna il più delle volte vai sul sicuro e ci schiaffi dentro i soliti goblin o coboldi (al primo livello) per poi muoversi verso creature più letali ai livelli inferiori.

Leggendo la descrizione del grimlock nel Manuale dei Mostri di D&D 3.5, scopriamo che i grimlock sono umanoidi con una pelle grigia, scagliosa, e orbite prive di occhi, che vivono nelle profondità della terra ed escono in superficie per catturare schiavi e depredare. Apprendiamo che amano mangiare carne fresca e cruda, preferibilmente umana.

Messa così, a me sembra molto promettente. Perché? Perché io mi immagino questo:

o questo:

ma di sicuro non questo:

e neanche questo:

Non voglio dire che siano illustrazioni brutte, anche se il primo mi ricorda Gargamella e il secondo uno dei Twisted Sisters. Voglio dire che molti mostri hanno descrizioni che danno adito a immagini mentali vivide e paurose, ma una volta “visti” sulla carta perdono intensità. Il Solitario di Providence ha più volte sottolineato che la paura più grande è la paura dell’ignoto. Mostri che vivono al buio, sottoterra, devono avere una connotazione aliena e orrorifica, non possono essere trattati come “normali” avversari da affrontare spada in pugno con lo stesso spirito con cui si affronta una battaglia in campo aperto. Finché è possibile, non vanno mostrati. Devono essere preceduti da inquietanti segni della loro presenza, intravisti con la coda dell’occhio, percepiti nell’oscurità totale prima che sentiti. E non vanno mai, MAI nominati. Descrivere un orrore indicibile alto come un palazzo, con testa da calamaro e ali membranose, che nuota verso di voi sollevando onde gigantesche fa paura, chiamarlo Cthulhu lo addomestica, anche solo un po’. Siamo d’accordo che D&D non è un gioco horror, ma un minimo di atmosfera è necessario crearla, soprattutto con mostri con un potenziale come il grimlock.

Quindi il makeover questa volta non è propriamente rivolto al mostro, ma al modo in cui lo si presenta ai giocatori. Accidenti, a ben vedere persino il verme-iena, che in D&D è una difficoltà minore, quasi comica per personaggi di livello alto, se inserito in una campagna di Mondo di Tenebra, potrebbe essere presentato in modo da far strizzare le chiappe a chiunque.

E qui mi sento di dare un consiglio agli amici Master che non abbiano già questa buona pratica: non nominate mai i mostri ai giocatori. Siamo d’accordo: un goblin è un goblin, ma se è così famigliare non dovreste neppure inserirlo nelle avventure. Ma tutti gli altri, specialmente quelli poco usati, devono rimanere il più possibile ignoti ai giocatori. Non mostrate la loro illustrazione, nemmeno se è bellissima, e non date loro un nome. Prima o poi, a battaglia finita, un giocatore vi chiederà: “Cos’era?” Resistete alla tentazione di dirlo! Se proprio la situazione lo richiede, per esempio se il personaggio è uno studioso di mostri e vuole fare una prova per vedere se riconosce la creatura, potete concedergli la prova e se la prova riesce inventate una descrizione, aggiungete dettagli e possibilmente due o tre nomi alternativi. Per esempio:

“Sembra un Nano, ma questa grottesca caricatura non potrebbe essere definito Nano nemmeno dal più fantasioso degli artisti visionari. Ha la pelle grigio-azzurra, è piccolo, contorto, tozzo, ha una smorfia malvagia sulla faccia e strane cicatrici rituali, probabilmente autoinflitte, sulle braccia e sul collo. Gli occhi privi di pupilla, lattiginosi, sono spalancati nel rictus della morte ma conservano un’espressione malevola. Hai già sentito parlare di queste creature, ma credevi che esistessero solo nelle favole fatte per spaventare i bambini. Vengono detti I Folli, o i Nani dell’Abisso, o anche solo I Maledetti”

è molto più efficace di:

“E’ un Derro.”

Tra l’altro, quando riutilizzerete la stessa descrizione, i giocatori più svegli assumeranno l’espressione luminosa e partecipativa di chi ha riconosciuto la creatura e magari proromperanno in uno spontaneo “li abbiamo già incontrati, quella volta là nelle gallerie sotto Undermountain!” e vi assicuro che, da Master, io VIVO per questi rari momenti. Viceversa, se la volta prima avete dato loro un nome, l’atteggiamento sarà quello del deja vu, della sufficienza. Ah, sì, quei cosi là.

Provate, notate la differenza. Keep gaming.

Monster makeover – Orsogufo


Dungeons&Dragons è una miniera di mostri assurdi e bizzarri. Se si leggono tutti i manuali dei mostri di tutte le edizioni si ha la sensazione sgradevole di aver visto tutto. Ma proprio tutto. La maggior parte è spazzatura, diciamocelo. Robaccia inutilizzabile, oppure talmente sciocca che la sua esistenza può essere giustificata solo in una campagna parodistica e goliardica. Oppure risponde al paradigma del “pupazzone”, di cui ho già parlato in altri post. In pratica: prendi un essere normale, tipo una tartaruga. Lo rendi gigante. Lo rendi kattivo. Gli dai caratteristiche minori che sottolineino la sua alienità, tipo strani cornini viola che escono dalla testa, o occhi rosso sangue. Gli dai 485 punti ferita, 6 attacchi per round a +24, CA 32, varie immunità et voilà! Un pupazzone.

Per fortuna molti mostri non rientrano in questo cliché. I mind flayer e i beholder sono esempi eccellenti di come si possa creare un ottimo antagonista senza per forza fare un pupazzone. I draghi all’inizio mi sembravano fichissimi, ora mi fanno un po’ un effetto meh. Più che altro tendo a non inserirli quasi mai. Da giovani sono pippe incredibili, da anziani sono indistruttibili. Come giustifico la presenza di un predatore avido e brutale che pesa 700 tonnellate e sputa fuoco e vive a venti chilometri da un insediamento di umani? Chi sarebbe così pazzo da stare entro mille chilometri da questa mostruosità? Quindi alla fine spesso rinuncio al drago, e il mio gioco potrebbe tranquillamente chiamarsi Dungeons&Dungeons, visto che di Dragons se ne vedono pochini. A dire il vero il mio gioco si chiama Dungeon Hack, per cui c’è una certa coerenza in questo.

Comunque…

Esistono i primi della classe (Beholder, Mind flayer, Orchi, Lich e non morti vari), esistono le cenerentole (Flumph, Coboldi, e per quanto mi riguarda Kuo toa). E in mezzo c’è una pletora di mostri né brutti né belli, semplicemente insignificanti o tutti uguali tra loro. Il mio esercizio preferito nella creazione della campagna corrente è di prendere una di queste grigie comparse e provare a cambiarla per renderla non dico interessante, ma almeno utilizzabile. Più il materiale di partenza è scrauso, più mi stimola.

Facciamo un paio di esempi con uno dei miei mostri (non)preferiti.

owlbearOrsogufo. Fondamentalmente è un orso. Con la testa di gufo. Fa cose che fanno gli orsi, tipo girare e attaccare la gente. Probabilmente quando ti stacca la testa con una zampata si sgallina un po’ come l’Arcagnolo Gabriello (riferimento a un film “misterioso”, chi se lo ricorda?), lasciando in giro qualche piuma, ma niente più di così. Un tantino deboluccio come concetto, non trovate?

Qui di seguito riporto alcuni esperimenti genetici su questo mostro per renderlo ALMENO distinguibile da un semplice orso, espressi nella maniera in cui da bambini lasciavamo andare la fantasia e creavamo le premesse per il gioco che stavamo per incominciare, vale a dire all’imperfetto e con il massimo sense of wonder:

“Facciamo che la metà superiore si poteva staccare da quella sotto. Che quando andava in giro era lentissimo, ma la parte sotto aveva l’apparato digerente, mentre quella sopra no. Quindi la parte sotto stava ferma da qualche parte mentre quella sopra volava via a cercare cibo. Poi si ricollegava alla parte sotto e digeriva il cibo raccolto.”

Un gufo gigante con interiora penzolanti plana su di voi nella notte per inghiottire il più possibile e volare faticosamente verso il resto del suo corpo. Tanto è aggressivo quando caccia, quanto è goffo e schivo quando è a pancia piena. Per questo, quando ha individuato una preda o un gruppo di prede, non si ferma finché non le ha uccise tutte. Infatti teme di essere sopraffatto quando, satollo e lento, è più vulnerabile. Quindi prima fa una strage, poi inghiotte tutto quello che può e si dirige verso la sua metà inferiore. Trovare e fare a pezzi la sua parte inferiore è il modo migliore per ucciderlo tra atroci tormenti, poiché quello che ha inghiottito, intrappolato in una sacca ventrale idonea solo al trasporto, marcisce e fermenta senza che lui se ne possa liberare.

Altra possibilità:

“Facciamo che era in grado di svolazzare per brevi tratti, tipo gallina, e che usava questa capacità per piombarti addosso.”

Un orso saltante. Che arriva da sopra gli alberi, partendo da venti o trenta metri più il là.

Come nasce un orsogufo? Diciamo che fa le uova, ma esse non contengono la prole, contengono un potente mutageno che odora di miele. Gli orsi lo mangiano e in tre mesi la metamorfosi è completa. Cosa succede se lo mangia un umano? Mmwahahaha!

Qualche suggerimento per il prossimo monster makeover?

‘A quarantena, m’hai provocato?


… e io te distruggo, quarantena. Parafrasando il mitico Albertone in “Un americano a Roma”.

E così alla fine ci siamo dati al digitale, obtorto collo, e per ora non è così malvagio. Sospesa la prova del sistema casalingo Star Wars, sospesa la campagna Dungeon Hack ambientata nei Forgotten Realms, sospese le sessioni sporadiche a Mondo di Tenebra, resta una gran voglia di giocare, una voglia che i giochi di ruolo per PC non riescono nemmeno lontanamente a calmare. Che facciamo? Dopo qualche incertezza iniziale noi ci siamo organizzati così:

  1. Una sessione a settimana a un gioco che sarebbe pensato per il solitario, ma va bene anche cooperativo, e si chiama Four Against Darkness, del geniale Andrea Sfiligoi. Per chi non lo conosce, si tratta di un generatore casuale di dungeon da affrontare con quattro personaggi appartenenti alle tipiche classi del gioco di ruolo più famoso coverdel mondo. Le regole sono semplicissime e il gioco riesce a ricreare le atmosfere dei primordi dell’hobby in una maniera incredibile. Il fatto che tutto venga gestito tramite tabelle non deve far pensare a un sistema macchinoso, anzi! Una volta acquisite le regole, tutto scorre fluido e rapido. Abbiamo deciso di provare questo sistema proprio perché è un ibrido tra un gioco di ruolo e un gioco da tavolo, almeno come spirito. Per condividere il dungeon disegnato in tempo reale dal sottoscritto abbiamo provato Roll20, uno dei tabletop virtuali in circolazione. E’ abbastanza intuitivo e funziona abbastanza bene (tranne la chat, che è un po’ instabile, ma forse è colpa del sovraccarico). L’esperimento è riuscito, ci stiamo divertendo e rispolveriamo un po’ quella semplicità di gioco che fa tanto old school. Date un’occhiata a Four Against Darkness: costa una stupidata, è divertente, si può fare da soli o in compagnia, ci sono avventure pubblicate, espansioni, illustrazioni sghembe in stile Erol Otus (ma invece sono in stile Sfiligoi)… insomma, ‘na figata.
  2. Abbiamo ripreso in mano il Cypher System, proseguendo una campagna iniziata quasi due anni fa e arenatasi senza un motivo particolare, a parte la mia incapacità come Master di gestire più di tre giochi di ruolo alla volta. Si tratta di uno spin-off di the-strange-corebook-2014-05-27una campagna di The Strange, ma in sostanza il regolamento è quasi uguale. Si chiama Soviet Zed, ed è un mix di The Strange e dell’ambientazione “Soviet” per Sine Requie. In pratica Soviet Zed è una ricorsione di The Strange: un 1958 alternativo in cui i non morti camminano sulla Terra sin dal giorno dello sbarco in Normandia, con… lievissimi effetti sulla struttura sociale complessiva. Per chi non conosce The Strange: una ricorsione è un piccolo mondo, una mini-ambientazione, in cui i personaggi arrivano “contestualizzati”, cioè adatti a quel mondo e a quel dato livello tecnologico, mantenendo intatta la coscienza di esploratori delle dimensioni alternative. E’ sufficientemente stramba da conquistarmi e molto, molto, molto distopica. Cioè, a confronto il manuale originale di “Soviet” (che già non scherza) è una favoletta per bambini. Sto proprio sfogando i miei istinti più bassi, ma sembra che i giocatori apprezzino.

Staremo a vedere cosa ci riserverà il futuro, ma mi pare che il gioco di ruolo sia un ottimo modo per conservare la sanità mentale in questa situazione paradossale in cui ci ha precipitati il virus.

Per cui, ora come non mai, keep gaming.

Mostri di D&D che non mi piacciono


alligatorCi sono un sacco di mostri di D&D che considero stupidi, brutti, inutilizzabili, troppo potenti, troppo poco potenti, o addirittura ridicoli. C’è però una categoria che non sopporto, e magari qualche psicologo tra i miei lettori ci sarà e mi potrà dare indicazioni sul perché abbia così in odio tale categoria. Ci sarà di certo una ragione inconscia, che con tutta probabilità ha origine in un trauma infantile, magari legato al sesso, così tutti i clichè sono stati soddisfatti e siam tutti più tranquilli.

O forse sono proprio mostri di merda.

Sto parlando dei mix che io definisco “innesti”: uomo con testa di animale, animale con testa di uomo. Rakshasa: umanoide con testa di tigre. Yuan ti: umanoide con coda di serpente. Sirena: donna con coda di pesce. Centauro: cavallo con innestata la parte superiore del corpo di un umanoide. Nella categoria non sono compresi gli umanoidi mostruosi, tipo gli uomini lucertola. Di uomo non hanno niente, a parte il nome, sono a tutti gli effetti delle lucertole bipedi e un po’ intelligenti. E’ l’innesto che mi disturba. Mi suona come un modo sciatto, pigro, di costruire una creatura fantastica.

I più attenti obbietteranno: “Proprio tu parli, tu che adori il mind flayer, che non è altro che un umanoide con la testa di calamaro!” Sbagliato. Intanto il mind flayer ha tentacoli in faccia, ma non è un calamaro nè un umanoide con la testa di calamaro. Poi c’è una gerarchia nei principi che regolano la mia nerditudine, e il principio “i mix uomo-animale sono mostri loffissimi” è di gran lunga inferiore al principio “everything is better with tentacles”. Quindi non mi ammorbate, rivendico il mio diritto all’incoerenza mascherata da cavillosi distinguo. E bom. Continua a leggere

Miti da sfatare: l’ingombro


backpackCroce e delizia dei dangionari più hardcore, cavallo di battaglia dei rules lawyer, tragedia dei powerplayer. La regola più ignorata della storia di D&D e affini, e paradossalmente l’unica regola che riuscirebbe a introdurre un po’ di verosimiglianza nelle avventure fantasy. Da cui si deduce che della verosimiglianza non importa un granché quasi a nessuno. Oppure l’ingombro ha ancora qualcosa da dire? Scopriamolo insieme.

Sin dagli albori del gioco di ruolo, improntati a un’esplorazione minuziosa di dungeon letali e alla ricerca di bottino da depredare, gli autori hanno cercato di introdurre un qualche tipo di meccanismo che riproducesse la difficoltà di portarsi in giro l’equipaggiamento e i tesori. Non mi addentrerò nella disamina delle tabelle dei pesi basate sui diversi punteggi di Forza del personaggio. Quelle sono un grottesco monumento alla vanità umana, alla nostra velleità di trasformare tutto in numeri, di comprendere, catalogare, prevedere. Voglio invece suggerire spunti di riflessione per un miglior gioco, suggerire una serie di idee a cui non si pensa quasi mai durante una sessione ma che potrebbero rivelarsi ottimi pretesti per giocare – letteralmente – di ruolo.

Se guardiamo qualche film o qualche serie tv di avventura notiamo subito che certe questioni pratiche rivestono grande importanza. I western non sono soltanto sparatorie, ma anche e soprattutto cose come: la traccia è fangosa, i carri sono troppo pesanti, non abbiamo provviste a sufficienza, il passo montano è praticabile solo tre mesi all’anno, accidenti il fucile è sul cavallo e non posso raggiungerlo, mi hanno rubato il cavallo con le provviste, troviamo un riparo per la notte e via dicendo. Spesso l’avventura è costituita proprio dalle difficoltà oggettive di organizzazione, trasporto, approvvigionamento. Se poi parliamo di guerra, risulta evidente che in tutte le epoche e in tutti i luoghi essa è quasi esclusivamente un problema di logistica. Continua a leggere

Il Troll Quantistico


Nel linguaggio del gioco di ruolo, in un momento imprecisato e a opera di chissà chi, a un certo punto compare l’espressione “Troll quantistico”. Siccome ultimamente mi sono imbattuto più volte in questo modo di dire, associato a una connotazione negativa del suo significato, vorrei dire la mia su alcune questioni di progettazione di avventure che il troll quantistico solleva.

Prima però bisogna capire cosa sia il troll quantistico. Non sono riuscito a trovare una definizione ufficiale, ma solo una serie di spiegazioni generali. L’espressione è gergale, per cui si presta a molteplici significati. In via di grande approssimazione, definisce non solo un troll, ma un qualsiasi tipo di incontro, mostro, antagonista e in generale evento, che i giocatori incontreranno di sicuro perché il Master lo sposta in base alle loro scelte. Facciamo un esempio:

I personaggi stanno esplorando il classico dungeon e giungono a un bivio: a destra un corridoio lungo e stretto, a sinistra una scala che conduce a una porta. Se seguono il corridoio, il Master farà loro incontrare un troll. Se salgono la scala e aprono la porta ci troveranno dentro un troll: lo stesso. Non un troll uguale (perché sennò si tratterebbe di riciclo dei png, che è una tecnica differente), no no, proprio lo stesso incontro. Semplicemente, il Master ha deciso che prima o poi quel troll lo si doveva incontrare, per cui lo piazza dove è più comodo, facendo sì che la libertà dei personaggi sia solo un’illusione.

Perché “quantistico”? Intuisco che il riferimento sia alle bizzarre leggi della fisica quantistica, che io non conosco, ma che evidentemente conosceva l’inventore dell’espressione. Niente di più facile, dato che fino a una quindicina di anni fa il gioco di ruolo era roba da studenti di fisica nerdissimi e alienati, anche se molto simpatici. Ne ho conosciuti a pacchi, fidatevi, sia sull’alienazione che sulla simpatia. In pratica è un modo per dire “un troll che sta qui, ma può stare anche lì”, oppure “un troll che si materializza dove lo cerchi, e più non dimandare“, frutto dello humor autoironico di matrice goliardica tipico di chi ha tanto tempo a disposizione (studenti), tanti neuroni (di fisica),  e poca dimestichezza con l’altro sesso (nerdissimi). E’ il genere di frase che starebbe bene in bocca a Sheldon Cooper. Continua a leggere

Tomb of Horrors e Zeitgeist


TombCoverIeri sera, dopo mesi di astinenza da dungeon (per alcuni di noi, anni) siamo riusciti a giocare con il numero esorbitante di cinque giocatori più Master, e fino all’ultimo momento abbiamo rischiato di essere in sette, roba d’altri tempi.

Come d’altri tempi è stato il modulo giocato: Tomb of Horrors (la versione originale del 1975, convertita facilmente al nostro sistema casalingo Dungeon Hack). Ragazzi, che massacro. Tre ore di gioco, sei PG morti per le cause più svariate, un totale di sole sei stanze esplorate.  Di solito il nostro gruppo gioca campagne in stile eroico, narrativo, post-Drangonlance. Questa volta invece abbiamo fatto qualcosa di insolito, un esperimento sociale-ruolistico, ai limiti dell’archeologia del gioco di ruolo. Giochiamo alla maniera degli anni Settanta! Seeee!!! Ma come si giocava negli anni Settanta? Come dei maledetti duri, ecco come. L’abbiamo provato ieri sera. Questa esperienza ci ha aperto gli occhi. A noi, che non siamo proprio di primo pelo.

Abbiamo usato personaggi pregenerati, del tutto spendibili, a cui non eravamo affezionati, e ogni morte era occasione di grasse risate. Ma se penso di giocare un modulo killer come questo usando un personaggio che ha raggiunto un certo livello, con decine di sessioni alle spalle e magari anni di gioco e perfezionamento meticoloso, mi vengono i brividi. Perché qui, ragazzi, si muore. Si muore per niente. Si muore per una botola, per un crollo, per un ago avvelenato. Si muore perché si finisce in una trappola. Allora si cerca di evitare un’altra trappola che sembra uguale… e si finisce in una trappola diversa, che ovviamente era stata messa lì prevedendo i ragionamenti machiavellici dei personaggi. You die…

Sembra che un buon combattimento in cui far brillare i guerrieri non arrivi mai, ed ecco che invece arriva. Solo che arriva a sorpresa, dopo che i personaggi sono stati sfiancati da trappole, teletrasporti e false piste. Il modulo raccomanda al Master di non indirizzare i personaggi in nessun modo, di lasciare che siano loro a fare le proprie scelte, e di non aver paura di punirli senza pietà se fanno sciocchezze. E pure se non ne fanno.

Ci sono perle come:

If the doors are opened, the roof of the tunnel will collapse and inflict 5-50 (5d10) hit points of damage upon each character inside of it, with no saving throw“.

Avete capito bene. No saving throw.

A me, come sempre, viene da ragionare anche troppo su significati, su parallelismi reconditi tra realtà diverse. Al giorno d’oggi sarebbe inaccettabile una trappola che non consente un tiro salvezza. Basta dare un’occhiata allo stesso modulo in versione 3.5, edulcorata al punto da snaturarla del tutto. Per non parlare dell’ultimissima revisione per la 5.0. Probabile che sia dovuto al fatto che, nel gioco come nel mondo, i tempi sono cambiati. Ci siamo rammolliti. Il gioco deve essere “bilanciato”, altrimenti viene etichettato come un prodotto mal fatto, un videogame deve essere avvincente ma mai punitivo (anche se ci sono eccezioni), e deve sempre contenere un tutorial che renda superflua la lettura del manuale, ma poi chi lo legge più un manuale? Vi ricordate i manuali dei videogiochi di vent’anni fa? Ora le regole dei giochi di ruolo devono essere semplificate, possono esserci addizioni ma non sottrazioni, perché si sa che le sottrazioni sono più difficili (non sto scherzando, è un vero consiglio di un moderno game designer). Ora i giochi devono prenderti per mano, non frustrarti, ma soprattutto devono essere essere comprensibili anche a un somaro. Che ovviamente non esiste più nemmeno lui, esistono diverse velocità di apprendimento, con libri scolastici modulati a seconda dell’acronimo usato per definire ogni particolare disturbo dell’apprendimento inventato solo per non dover dire ai genitori che il figlio è: indisciplinato, irrequieto, disobbediente, aggressivo, distratto, lento di comprendonio, pigro… parole che fanno paura, come tutte le parole che hanno un significato ben preciso. Roba da far rimpiangere il falso ma naif “suo figlio è intelligente ma non si impegna”. Cambia la società, e il mondo dei giochi, specchio del mondo reale, si adegua.

hqdefault
Eh eh eh…

Per esempio, il modulo diceva espressamente:

The real enjoyment of this module is managing to cope, and those players who manage to do so even semi-successfully will appreciate your refereeing property and allowing them to “live or die” on their own.

Dubito che sottoporre questo modulo a un gruppo di “Generation Z” che per pura ventura hanno scoperto il gioco di ruolo carta & penna avrebbe lo stesso effetto avvincente ed esilarante che ha avuto su di noi grognardi. Non esiste più il semi-successo soddisfacente perché conquistato con fatica, esiste il “tutto e subito, perché io valgo”. E’ un atteggiamento che si riscontra anche in ambiti molto più seri del gioco di ruolo e probabilmente è più dannoso là che qua, ma io ci vedo delle similitudini.

Oggi il gioco, come la scuola, il lavoro e tutto il resto, deve essere costellato di micro successi motivanti, è scomparso il concetto di sacrificio seguito dalla ricompensa. Niente più bastone e carota, solo micro-carotine sparse in mezzo non a bastonate, ma a carezze vissute come sberle da una generazione di persone che forse ha vissuto un po’ troppo nella bambagia.

Ci sto vedendo dentro troppe cose. Però è davvero istruttivo vedere come il nerd anni Settanta, pur nel suo essere ai margini sociali, fosse comunque più strutturato e resiliente rispetto agli standard odierni, più voglioso di sfide difficili, più disposto a divertirsi nonostante il fallimento (e forse GRAZIE al fallimento). Il gioco non faceva sconti, e nessuno si aspettava che ne facesse, come del resto la vita. Forse c’è un insegnamento in questo.

Keep gaming.

Alimentazione medievale e gdr fantasy – parte seconda


the-taste-of-medieval-food
Prima di morire devo assaggiare il pavone…

Cerco istintivamente di integrare nel gioco di ruolo ogni nozione storica che offra un minimo di interesse o di originalità. Mi domando sempre in che modo sia possibile utilizzarla per rendere più varia l’esperienza di gioco e se sia produttivo inserirla in qualche forma nelle avventure o, addirittura, in apposite house rules. Il contatto con il mondo della cucina medievale è stato interessante di per sè, ma anche in relazione al gioco di ruolo, e quindi continuo nella mia rapida carrellata su quelli che secondo me sono gli elementi più utili per arricchire il nostro world building.

Un elemento da tenere in considerazione quando si parla di cibo medievale è che esso aveva importanza simbolica, medica e persino religiosa. Il cibo non era semplice cibo, era un modo per mantenersi in salute, uno status symbol e un segnale di determinate ricorrenze. Il cibo era parte integrante della vita e della società e non si esauriva nel nostro banale “cosa facciamo per cena?” o nella nostra edonistica e un po’ vuota ricerca del “piacere della buona tavola”.

Cibo e medicina

Alle varie pietanze era attribuita tutta una quantità di proprietà medicinali, inquadrate nelle credenze dell’epoca. Ecco quindi che certi cibi avevano proprietà purificanti, altri fortificanti, altri servivano a eliminare gli umori dannosi, altri a riequilibrare le energie del corpo. Ecco, secondo me tentare di riprodurre questi effetti in un contesto fantasy non è utile, innanzitutto perché la medicina medievale è un guazzabuglio quasi inestricabile di miti, credenze infondate, distorsioni di precetti religiosi, e chi più ne ha più ne metta. Inoltre si rischia di perdersi in dettagli poco divertenti, mentre lo scopo dell’introduzione della cucina nel GDR è di far colore, di dare l’idea che il mondo segua regole tutte sue anche in questo aspetto marginale. Verosimiglianza, non realismo. Infine, nel gioco fantasy esistono forme di guarigione magica che certamente toglierebbero importanza alle proprietà mediche vere o presunte dei cibi. Quello che può essere utile è di partire dall’idea di base secondo cui tutti scelgono i cibi in base alla disponibilità, al costo e alla difficoltà di preparazione, senza tener conto di elementi quali le proprietà disintossicanti della tal pietanza macerata nella verbena durante la quaresima…

…salvo poi ripescare questo elemento suggestivo utilizzando i mostri. Chi l’ha detto che un bugbear non sia commestibile? Secondo gli autori di NetHack TUTTO è commestibile (tranne i coboldi, che fanno venire il mal di stomaco, ma sto divagando). Una cockatrice potrebbe essere una prelibatezza rara come il pesce palla, e come lui potrebbe avere effetti spiacevoli se preparata in maniera scorretta. Oppure potrebbe esistere tutta una tradizione orale sulle proprietà dell’ingestione di parti speciali di mostri, che il Master si può divertire a inventare e applicare sul campo. Anche nel mondo moderno, alcune specie animali sono state portate sull’orlo dell’estinzione dalla credenza di proprietà portentose di alcune loro parti. Cosa accadrebbe in un mondo fantasy? Quali opportunità creerebbe per un gruppo di avventurieri?

Un approccio alternativo: ho sempre trovato difficile da giustificare l’introduzione nell’ecosistema di mostri potentissimi accanto a animali “normali”. Un orso cambierebbe radicalmente le sue abitudini se non fosse più in cima alla catena alimentare perché esistono “orsi crudeli” o draghi o manticore in grado di papparselo in un boccone. Quindi nei “miei” mondi fantasy, esiste un principio non scritto secondo cui le creature non naturali sono in qualche modo imparentate con la magia e per il loro sostentamento sulla lunga distanza devono cacciare e nutrirsi di altre creature dello stesso tipo. Come dire che i mostri si cacciano tra loro e in condizioni normali considerano il mangiare un animale comune al pari del nutrirsi di un vegetale. Al tempo stesso, gli animali normali rifuggono dai mostri, spinti dallo stesso istinto che impedisce loro di mangiare erbe velenose. Può apparire una forzatura e non piacere a tutti, ma considerate che un animale come il lupo è minacciato nella sua esistenza dal semplice espandersi degli insediamenti umani. Figuriamoci se avesse un competitore naturale come un basilisco. In più, ciò spiegherebbe il fatto che i mostri più potenti e intelligenti, pur non temendo più di tanto gli esseri umani, non assediino permanentemente fattorie, villaggi e città, che viceversa potrebbero essere la loro fonte primaria di sostentamento. In realtà, secondo la ricostruzione alternativa che propongo, gli umani sono di scarso interesse per una manticora, che, magari, deve per forza cibarsi di ettin e pantere distorcenti per non perdere vigore. O addirittura uccide gli umani solo per divertimento, come il gatto che gioca col topo, oppure li uccide per non cedere il suo territorio, ma non li mangia perché le fanno male, e così via. Considerate l’idea di introdurre un concetto simile nel gioco. Ovviamente, questa interpretazione è difficile da armonizzare con l’idea di mostri con proprietà benefiche. Eppure è possibile: potrebbe trattarsi di una situazione simile ai farmaci moderni: fa bene da una parte e fa male dall’altra (effetti collaterali), quindi la gente non mangia “mostri” tranne quando ne ha assoluto bisogno per motivi terapeutici. Scegliete un’idea e portatela alle estreme conseguenze con coerenza.

La prossima volta generiamo taverne. Oh, yeah.

E buon appetito.