Ieri sera, dopo mesi di astinenza da dungeon (per alcuni di noi, anni) siamo riusciti a giocare con il numero esorbitante di cinque giocatori più Master, e fino all’ultimo momento abbiamo rischiato di essere in sette, roba d’altri tempi.
Come d’altri tempi è stato il modulo giocato: Tomb of Horrors (la versione originale del 1975, convertita facilmente al nostro sistema casalingo Dungeon Hack). Ragazzi, che massacro. Tre ore di gioco, sei PG morti per le cause più svariate, un totale di sole sei stanze esplorate. Di solito il nostro gruppo gioca campagne in stile eroico, narrativo, post-Drangonlance. Questa volta invece abbiamo fatto qualcosa di insolito, un esperimento sociale-ruolistico, ai limiti dell’archeologia del gioco di ruolo. Giochiamo alla maniera degli anni Settanta! Seeee!!! Ma come si giocava negli anni Settanta? Come dei maledetti duri, ecco come. L’abbiamo provato ieri sera. Questa esperienza ci ha aperto gli occhi. A noi, che non siamo proprio di primo pelo.
Abbiamo usato personaggi pregenerati, del tutto spendibili, a cui non eravamo affezionati, e ogni morte era occasione di grasse risate. Ma se penso di giocare un modulo killer come questo usando un personaggio che ha raggiunto un certo livello, con decine di sessioni alle spalle e magari anni di gioco e perfezionamento meticoloso, mi vengono i brividi. Perché qui, ragazzi, si muore. Si muore per niente. Si muore per una botola, per un crollo, per un ago avvelenato. Si muore perché si finisce in una trappola. Allora si cerca di evitare un’altra trappola che sembra uguale… e si finisce in una trappola diversa, che ovviamente era stata messa lì prevedendo i ragionamenti machiavellici dei personaggi. You die…
Sembra che un buon combattimento in cui far brillare i guerrieri non arrivi mai, ed ecco che invece arriva. Solo che arriva a sorpresa, dopo che i personaggi sono stati sfiancati da trappole, teletrasporti e false piste. Il modulo raccomanda al Master di non indirizzare i personaggi in nessun modo, di lasciare che siano loro a fare le proprie scelte, e di non aver paura di punirli senza pietà se fanno sciocchezze. E pure se non ne fanno.
Ci sono perle come:
” If the doors are opened, the roof of the tunnel will collapse and inflict 5-50 (5d10) hit points of damage upon each character inside of it, with no saving throw“.
Avete capito bene. No saving throw.
A me, come sempre, viene da ragionare anche troppo su significati, su parallelismi reconditi tra realtà diverse. Al giorno d’oggi sarebbe inaccettabile una trappola che non consente un tiro salvezza. Basta dare un’occhiata allo stesso modulo in versione 3.5, edulcorata al punto da snaturarla del tutto. Per non parlare dell’ultimissima revisione per la 5.0. Probabile che sia dovuto al fatto che, nel gioco come nel mondo, i tempi sono cambiati. Ci siamo rammolliti. Il gioco deve essere “bilanciato”, altrimenti viene etichettato come un prodotto mal fatto, un videogame deve essere avvincente ma mai punitivo (anche se ci sono eccezioni), e deve sempre contenere un tutorial che renda superflua la lettura del manuale, ma poi chi lo legge più un manuale? Vi ricordate i manuali dei videogiochi di vent’anni fa? Ora le regole dei giochi di ruolo devono essere semplificate, possono esserci addizioni ma non sottrazioni, perché si sa che le sottrazioni sono più difficili (non sto scherzando, è un vero consiglio di un moderno game designer). Ora i giochi devono prenderti per mano, non frustrarti, ma soprattutto devono essere essere comprensibili anche a un somaro. Che ovviamente non esiste più nemmeno lui, esistono diverse velocità di apprendimento, con libri scolastici modulati a seconda dell’acronimo usato per definire ogni particolare disturbo dell’apprendimento inventato solo per non dover dire ai genitori che il figlio è: indisciplinato, irrequieto, disobbediente, aggressivo, distratto, lento di comprendonio, pigro… parole che fanno paura, come tutte le parole che hanno un significato ben preciso. Roba da far rimpiangere il falso ma naif “suo figlio è intelligente ma non si impegna”. Cambia la società, e il mondo dei giochi, specchio del mondo reale, si adegua.

Per esempio, il modulo diceva espressamente:
The real enjoyment of this module is managing to cope, and those players who manage to do so even semi-successfully will appreciate your refereeing property and allowing them to “live or die” on their own.
Dubito che sottoporre questo modulo a un gruppo di “Generation Z” che per pura ventura hanno scoperto il gioco di ruolo carta & penna avrebbe lo stesso effetto avvincente ed esilarante che ha avuto su di noi grognardi. Non esiste più il semi-successo soddisfacente perché conquistato con fatica, esiste il “tutto e subito, perché io valgo”. E’ un atteggiamento che si riscontra anche in ambiti molto più seri del gioco di ruolo e probabilmente è più dannoso là che qua, ma io ci vedo delle similitudini.
Oggi il gioco, come la scuola, il lavoro e tutto il resto, deve essere costellato di micro successi motivanti, è scomparso il concetto di sacrificio seguito dalla ricompensa. Niente più bastone e carota, solo micro-carotine sparse in mezzo non a bastonate, ma a carezze vissute come sberle da una generazione di persone che forse ha vissuto un po’ troppo nella bambagia.
Ci sto vedendo dentro troppe cose. Però è davvero istruttivo vedere come il nerd anni Settanta, pur nel suo essere ai margini sociali, fosse comunque più strutturato e resiliente rispetto agli standard odierni, più voglioso di sfide difficili, più disposto a divertirsi nonostante il fallimento (e forse GRAZIE al fallimento). Il gioco non faceva sconti, e nessuno si aspettava che ne facesse, come del resto la vita. Forse c’è un insegnamento in questo.
Keep gaming.
Sai, il concetto di “nei giochi, in passato, c’era più sfida” non mi ha mai catturato. Per dire, un mio amico sostiene che un tempo i videogiochi ti forgiavano perché erano tosti e via di gettoni in sala giochi, ma personalmente sono convinto che quei videogiochi-fabbro fossero una di queste due cose:
1 – progettati da cani
2 – progettati bene, ma non per divertirti, piuttosto per farti buttare montagne di monete in sala giochi e pagare l’università ai figli del gestore
Nel caso dei dungeon vecchio stile, mi sa che lo sviluppo della storia non era prioritario, viste le difficoltà: cose oneshottanti e stermina-gruppo sin dalle prime stanze, specie in un gioco alla D&D, ti permettono di vedere la fine del dungeon e della storia solo coi “bardi di ricambio” in stile Gamers 2.
Personalmente, non amo le sfide con l’esito prettamente già scritto e in un gioco che si dichiari fantasy epico, ma in cui muori perché non hai usato le cazzatine che tanto piacevano a Gygax (la pertica di 3 metri e lo specchietto per guardare negli angoli) non vedo nulla di epico.
Probabilmente è solo un fraintendimento sul genere narrativo e una questione di gusti 😛
Comunque, pensate di rifare qualcosa del genere, in futuro? Perché quell’approccio al gdr era probabilmente la normalità: ipotizzando che riusciate a trovare il tempo per giocare regolarmente, ti piacerebbe giocare sempre partite fatte con quell’approccio?
Riguardo al parallelo con le robe della vita moderna, sicuramente si è andati a semplificare l’esistenza nella direzione sbagliata: quando andavo a scuola io, le difficoltà erano davvero eccessive (e ci aggiungevi pure qualche insegnante spregevole e un po’ di compagni di classe orribili; oggi, la gente schifosa è rimasta, ma le “sfide” sono state appiattite, senza che le ingiustizie della vita reale siano svanite.
Sì, i videogiochi da bar erano progettati per svuotare il portafogli…
Però quelli casalinghi erano in media più difficili, sia da apprendere che da portare a termine, ma era la normalità. Il manuale di Rebellion è un libro, oggi sarebbe impensabile un gioco del genere, e sono passati solo vent’anni. “Solo” si fa per dire.
Sull’epica nel gioco di ruolo: come ho scritto, noi giochiamo da sempre “alla Dragonlance”. Ci piace la storia epica, le quest eroiche, il progresso del personaggio che ricalchi un po’ lo schema del viaggio dell’eroe. I personaggi di D&D dei primordi non erano eroi, erano meschini bastardi mossi dalla cupidigia, e la storia non era altro che la cronaca (postuma) delle loro peripezie. Non è un modo di giocare che mi acchiappa più di tanto, e questo esperimento è servito solo a darci un’idea di quale fosse il clima all’epoca. E’ brutale, oggettivamente più impegnativo, ma devo dire che riserva inaspettate soddisfazioni. Inoltre devo ammettere che mi ha fatto sperimentare qualcosa che prima conoscevo solo sulla carta: il concetto di “storia emergente”. In teoria si ha a che fare con una sequela interminabile di corridoi e stanze, apparentemente slegate tra loro. In pratica, si crea una strana alchimia per cui si forma una storia senza neanche accorgersene. E vedendola a posteriori, non è neanche malaccio, come storia. I giocatori hanno continuato a rievocare le situazioni, le sfighe, gli strani incastri del destino, come di solito fanno soltanto quando gli ho fatto vivere una storia epica accuratamente progettata a tavolino, e magari masterizzata con una fatica boia per evitare la banalità del railroading e le eccessive divagazioni del sandboxing.
Insomma, alla fine ne sono uscito con la consapevolezza che di certo i tempi sono cambiati, e noi con loro, ma Gygax era un maledetto genio, non solo un ammazza-PG psicopatico.
P.S.: per la prima volta in vent’anni hanno usato la famigerata pertica… e sono morti lo stesso.
Sono morti nonostante la pertica? °_°
Sei crudele! XD